“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia.”

da OGNI COSA E' ILLUMINATA - Jonathan Safran Foer

lunedì 11 aprile 2016

Ventimilapagine



"Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci…..allora sono convinto o no che il mondo continua ad esserci?….c’è ancora?…..sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso……….Allora, a che punto ero?" (dal film "MEMENTO" - Christofer Nolan - anno 2000)

PER OGNI COSA COSA CHE SO...
Io so che ho creato questo blog per un moto di egoismo. Del resto a chi mai poteva interessare.
Semplicemente ne avevo bisogno io, l'ho fatto per me stesso. Avevo bisogno di sapere chi ero.
Continuo a coltivarlo per un moto di altruismo. Perché ancora non so bene chi sono, ma nel frattempo ho scoperto cose, percorso chilometri, incontrato persone, respirato la polvere di vecchie carte e abbracciato parenti sconosciuti. E continuo a volere bene alla mia famiglia perché mi hanno insegnato così.

...C'E' QUALCOSA CHE NON SO
Un cosa che non so è come sia possibile che oggi questo blog abbia raggiunto il numero di 20.000 pagine visualizzate da circa 1.500 utenti singoli. Non era un mio obiettivo e non me ne compiaccio poi più di tanto, anche perché non credo che a tutte queste persone la storia della mia famiglia interessasse granché. Internet è una bestia misteriosa e a volte ci si ritrova nei siti più disparati alla ricerca delle cose più disparate.
Ma magari qualcuno in mezzo queste 20.000 pagine ha trovato qualcosa di interessante e magari, fra questi c'è stato anche chi la lettura se l'è gustata riscoprendo la propria storia e la storia delle proprie origini.

Poi so anche che se mi fosse spettata una lira per ogni pagina visualizzata ora avrei in tasca ben 20.000 lire che, come si sa, ormai non valgono più nulla.


SILVIO

venerdì 19 febbraio 2016

FRANCESCO LIMARZI

Dai vecchi cassetti a volte emergono sorprese, soprattutto dai cassetti di zio Nino. Ecco una bella foto di Francesco Limarzi che, da sola, vale più dei miei mille racconti.

FRANCESCO LIMARZI (1837 - 1908)

INDICE

LE ORIGINI DELLA NOSTRA FAMIGLIA

La dodicesima generazione (ALBERO GENEALOGICO 1630 - 2015)
Anno 1753 - Nicolò Li Marzi
Anno 1787 - Una Famiglia
Anno 1807 - Pasquale Li Marzi - Storia di un giustiziato
Li Marzi o Limarzi? Considerazioni sul nostro cognome

FRANCESCO LIMARZI (1837 - 1908)

Brevi cenni biografici
Storia di Francesco e della sua Divina Commedia
Francesco e l'Unità d'Italia
L'inizio della poesia
La Divina Commedia - La traduzione e il commento
"Cronache estive di Castellammare" - Francesco in un romanzo
Francesco al processo al Brigante Musolino
Come ordinare una copia della Divina Commedia

La famiglia Limarzi a Castellammare
La moglie: Giovanna Altomare

I FIGLI DI FRANCESCO

MARIA LAURA LIMARZI (Marzi 1858 - ?)
Brevi cenni biografici

RAFFAELE LIMARZI (Marzi 1860 - Bologna 1942)
Brevi cenni biografici
Raffaele ed Antonietta

EUGENIO LIMARZI (Marzi 1862 - Buenos Aires 1948)
Brevi cenni biografici

EGIDIO LIMARZI (Castellammare di Stabia 1872 - Castellammare di Stabia 1872)

ADOLFO LIMARZI (Castellammare di Stabia 1873 - Castellammare di Stabia 1956)
Brevi cenni biografici

SILVIO LIMARZI (Castellammare di Stabia 1876 - Meldola 1950)
Brevi cenni biografici
Pia Limarzi Vollono
Laura: una scoperta inaspettata
Giuseppina Limarzi Vollono
Vita da medico (un racconto immagnato ma non immaginario)
Domenica 9 Luglio 1950

UMBERTO LIMARZI (Castellammare di Stabia 1878 - Roma 1946)
Brevi cenni biografici 


STORIE DI OGGI
Lontano ma non troppo - Il primo viaggio a Marzi
Una piccola "Reunion"
Dante Limarzi - L'ultimo arrivato - Benvenido al mundo!
E' nato Francesco Limarzi!
- Le ali... e le Radici
- Confluenze: una rivista calabrese
- In memoria di Maria Concetta Pia Pompeiano in Limarzi
In ricordo di Maurizio Limarzi
Maurizio Limarzi - L'ultimo lavoro
Le avventure dell'ispettore Limarzi


STORIE DI ALTRI LIMARZI
Marzi - Chicago viaggio di sola andata


venerdì 22 gennaio 2016

NICOLO' LI MARZI

A Marzi nella metà del '700, secondo lo stato delle anime redatto dai parroci delle sue chiese, vivevano poco meno di 2.000 abitanti (1945 per l'esattezza). Si tratta di un numero considerevole se rapportato ai circa 1.550 che vivevano nel paese nel 1861, anno dell'unità d'Italia, e ancor più se paragonato ai neanche 1.000 attuali.
L'età media era clamorosamente bassa (attorno ai 26 anni) ed era la diretta conseguenza del fatto che quasi la metà della popolazione aveva meno di 20 anni. Un paese giovane quindi, ma non c'era nulla di buono in tutto questo. A Marzi, semplicemente, era piuttosto difficile diventare vecchi.
Il suo tessuto sociale, infatti, versava in uno stato di arretratezza piuttosto pesante che, del resto, caratterizzava all'epoca l'intero meridione d'Italia. Tutto questo, oltretutto, era significativamente aggravato dalla totale assenza di vie di comunicazione che poneva il paese in uno stato di potenziale isolamento.
Il centro urbano era caratterizzato da tante piccole abitazioni affastellate una sull'altra, in totale assenza di rete fognaria e con strade e vicoli nei quali scorrevano liquami maleodoranti. Le già precarie condizioni igieniche erano ulteriormente messe a dura prova dalla presenza di numerosi animali, necessari per la sopravvivenza alimentare delle famiglie, che venivano ricoverati ai piani inferiori o nei seminterrati delle case e la cui promiscuità con le persone era, di conseguenza, inevitabile.
Tutto attorno, nelle campagne scoscese e difficili da lavorare e in luoghi impervi, c'erano i cosiddetti casali che in epoche antiche avevano rappresentato l'embrione della Marzi primordiale. Secondo le teorie storiche prevalenti, infatti, fu da questo universo di case sparse che nacque il primo agglomerato urbano che ha portato al formarsi del paese.
L'agricoltura assieme alla pastorizia ne erano il centro della vita economica con colture costituite prevalentemente da viti, gelsi (necessari per nutrire i bachi dai quali si estraeva la seta), castagni e querce. Solo dove le pendenze lo consentivano c'erano appezzamenti dedicati a cereali e ad alberi da frutto, mentre le terre rimanenti erano destinate al pascolo.
Assieme all'agricoltura e la pastorizia il terzo asse portante sul quale si fondava l'economia locale era l'artigianato: moltissimi erano gli scalpellini e gli intagliatori la cui abilità era piuttosto conosciuta nella zona e che è ancora testimoniata ai giorni nostri dalla presenza di bellissimi portali nelle case più antiche del paese. 

E' in questo contesto che anche a Marzi venne redatto il Catasto Onciario, una sorta di censimento demografico, sociale e religioso voluto da re Carlo di Borbone nell'intero Regno di Napoli e di Sicilia che ci restituisce una affascinante e dettagliata fotografia del meridione italiano del '700.
Pur considerando che il suo scopo non era propriamente filantropico (si trattava di fatto di una gigantesca riforma tributaria volta ad aumentare le entrate fiscali),  l'opera era, a mio parere, di una assoluta lungimiranza. Innanzitutto spostava la tassazione dalle persone in quanto tali (secondo il principio che ad ogni "testa" dovesse associarsi una tassa) alle loro reali ricchezze. Ma non è solo questo: il metodo del catasto andava oltre, prevedendo un vero e proprio primordiale sistema di detrazioni secondo il quale i "pesi" delle famiglie stesse (debiti, spese per affitto, offerte alle chiese) andavano a ridurne la ricchezza imponibile.
A questo si affiancava un timido accenno di tutela sociale che prevedeva la non tassazione degli individui che per età o per condizioni di salute non potevano lavorare e, di conseguenza, produrre reddito. Certo il tutto va contestualizzato con gli usi, i costumi ed il linguaggio del tempo, visto che non è infrequente trovare di fianco al nome e cognome della persona inabile le diciture "scemo", "stroppio", "decrepito", "difettoso" e via dicendo.
In conclusione di tutto ciò va comunque colto in positivo il tentativo di rendere il fisco un minimo più equo pur avendo ben presente che si trattava solo di un piccolo e timido passo in questa direzione in quanto si era ben lungi dal ridurre i giganteschi squilibri sociali e gli spropositati privilegi che caratterizzavano le classi più abbienti (ad es. i feudatari) in quei luoghi ed in quei tempi.

Nel nostro paese di origine il Catasto venne completato nell'estate dell'anno del Signore 1753 e trascritto in due copie, tutt'ora esistenti, che sono oggi custodite rispettivamente presso l'Archivio di Stato di Cosenza e presso l'Archivio di Stato di Napoli. Impossibile non rimanere affascinati da tale opera le cui pagine, rilegate in volumi di grandissimo formato, si aprono con la seguente introduzione:


La copia di Cosenza è stata completamente digitalizzata ed è reperibile nel sito curato dal Archivio Stato (clicca qui per l'accesso).

Il tutto, oltre ad offrirci uno spaccato della Marzi del '700 assolutamente illuminante, finisce inevitabilmente con il restituirci un pezzo fondamentale della storia della nostra famiglia che in questo luogo affonda le radici. In particolare le pagine che ci interessano sono tre e sono quelle relative a NICOLO' LI MARZI:





Vediamo di sfogliarle assieme:

NICOLO' (LI) MARZI (1702 - 1769)
Il copofamiglia - Figlio di Cesare Li Marzi e di Maria Golia. E' l'avo diretto di tutti gli appartenenti al mio ramo famigliare e di quello di Bruno. Chi ha dei dubbi sulla sua collocazione può toglierseli cliccando su "ALBERO GENEALOGICO"
Non deve preoccupare l'assenza del prefisso "Li". Come già abbondantemente spiegato (vedi "Considerazioni sul nostro cognome") questo, in antichità era considerato come una semplice e poco importante appendice che sovente, nei testi ufficiali e quelli in latino, era omessa.
Considerando che lo scritto risale al 1753, Nicolò "di anni 48" sarebbe quindi nato attorno al 1705. Indicazione leggermente difforme ci fornisce il suo atto di morte, datato 20/12/1769 che reca la dicitura "di anni 67" e che quindi anticiperebbe la nascita al 1702. Ritengo più vicina alla realtà questa seconda indicazione.

Nicolò, persona molto attiva e conosciuta in paese, era un vero capo famiglia sia per quanto riguarda l'istruzione ed il sostentamento economico dei figli, sia per quanto riguarda la gestione dei matrimoni e la costituzione della dote delle sorelle Barbara e Flaminia. Era inoltre membro influente del parlamento cittadino di Marzi. Ciò ci viene confermato proprio dal verbale della seduta di tale organismo che lo annovera fra i deputati presenti quando, il 22 giugno 1753, sì dà il via alle operazioni per la compilazione del catasto onciario in paese.

FELICE CALABRESE (1721 - 1766)
La moglie - La prima considerazione che sorge è che, al contrario di oggi, il nome "Felice" era ai tempi destinato al sesso femminile e spesso era equiparato all'ugualmente diffuso "Felicia". Felice era una giovane ragazza di 17, al massimo 18 anni quando, attorno al 1738/39, sposò Nicolò di ben 16 anni più grande e diede alla luce Vincenzo, il primo figlio. Nonostante la sua più giovane età,  morì nel 1766, cioè tre anni prima del marito, a soli 45 anni.

VINCENZO (1739 - 1772)
Il primogenito - Nostro avo diretto (vedi "Una Famiglia"). Uno dei rarissimi "scolari" di Marzi a testimonianza della relativa agiatezza della famiglia. Stranamente non porta il nome del padre di Nicolò (come da usanza quasi universale dell'epoca), bensì quello dello zio Vincenzo che di Nicolò era fratello. Proviene quindi da qui la lunga tradizione che, dopo avere attraversato tre secoli, è giunta sino ai giorni nostri e che vede l'imposizione del nome "Vincenzo" a numerosissimi appartenenti al ramo di Bruno.

ANTONIA (1743 - 1811)
La primogenita - La prima figlia femmina di Nicolò sposò in seguito Marco Calabrese. Il suo ramo proseguì quindi con questo cognome.

CESARE (1745 - 1797)
L'omaggio al padre - Ecco, seppur in ritardo, il tradizionale tributo al nome dell'avo paterno. Forse ciò è dovuto al fatto che la sua nascita avviene in un arco temporale molto vicino a quello della morte dell'omonimo padre di Nicolò.
Dal suo matrimonio con Fortunata Oliveto nasceranno tutte femmine e un figlio maschio che morirà piuttosto giovane (a 34 anni) e prima di sposarsi. Anche questo ramo, quindi, per quanto riguarda i Li Marzi è da considerarsi estinto.

NUNZIATA (1751 - ?)
La figlia smarrita - Di Nunziata si sono ben presto perse le tracce, forse in seguito ad una morte prematura. Qualsiasi sia stato il suo destino non sono stato in grado di scoprire quale strada abbia preso.

LUNA PERRI
La nutrice - La presenza della nutrice, è un'altra evidente testimonianza dell'agiatezza della famiglia. I Perri erano anche i vicini di casa di Nicolò (il che si evince da questo e da altri documenti del catasto onciario) ed è facile ipotizzare perciò che Luna venisse proprio da questa famiglia limitrofa. I suoi servizi erano certamente stati preziosi nella crescita della piccola Nunziata e, probabilmente, lo furono anche per i successivi nati.

DOPO IL 1753
Gli anni dopo il catasto - Dopo la redazione del Catasto Onciario e quindi per forza di cose non riportati nel documento, nacquero da Nicolò e Felice altri due figli: BARBARA (1754-1816) e BRUNO (1755-1812).
Barbara sposò Vincenzo Calabrese e anche il suo ramo quindi prosegui con quel cognome (lo stesso del marito della sorella Antonia, chissà se i due cognati erano uniti da legami di parentela).
Del ramo di Bruno che, al contrario avrebbe potuto far sopravvivere il cognome, non ho trovato propaggini giunte ai giorni nostri. Pur non avendone la certezza penso di poter dire che lo stesso si possa considerare estinto anche se, dal matrimonio di Bruno con Barbara Tucci, nacque un figlio maschio di nome Filippo Li Marzi che, a sua volta, ebbe nella prima metà dell'800 diversi figli maschi.


"IN PIEDE CASALE"
Il luogo - C'è una zona di Marzi che nel Catasto del 1753 viene ricordata come "in Piede Casale" Si tratta di un toponimo viene conservato ancora oggi (via Impedicasali). Qui viveva gran parte della piccola comunità dei Li Marzi del paese. Ciò induce a pensare che quei pochissimi nuclei famigliari che portavano questo cognome fossero a loro volta imparentati fra di loro. Si erano, a mio parere, create due piccole comunità raggruppate in edifici adiacenti: una nella parte bassa della via ed una nella parte alta.
Ed è nella parte bassa (quella in cui le case conservano ancora oggi dei bellissimi orti di pertinenza racchiusi nelle proprie cinte murarie) che risiedeva Nicolò la cui casa viene infatti definita nel catasto "con orticello contiguo".
Questo dettaglio, unito al fatto che, come già detto, la stessa fosse confinante con quella di Fenice Perri ci indica con chiarezza la collocazione a Marzi della casa dei nostri avi. Fenice Perri viveva infatti in "Ruga Delli Vaccari" e, quindi, Nicolò doveva per forza abitare in quel gruppo di 3 o 4 case che affacciavano su via Impedicasali ed il cui retro si rivolgeva verso Ruga Delli Vaccari.

Per maggiore chiarezza (anche se mi rendo conto che la cosa possa aiutare solo chi conosce Marzi) pubblico qui di seguito una foto dove viene indicata, all'interno del cerchio di colore rosso, la zona che ho appena descritto. Cliccandoci sopra c'è la possibilità di ingrandirla.

Fonte: Google Maps

MULATTIERE
Il mestiere - Nicolò faceva il mulattiere. Un mestiere umile, marginale e poco redditizio si potrebbe pensare ma, nella metà del '700, in quella valle selvaggia e senza vie di comunicazione che era la Valle del Savuto, non lo era affatto.

Tanto per rendere l'idea fu poco più a sud, in quella stessa valle, che trovò la morte Isabella d'Aragona, regina di Francia e moglie del re Filippo III. Secondo le cronache del tempo la sovrana, (che stava ritornando in Francia dopo avere accompagnato il consorte alle crociate) cavalcava, benché incinta di sei mesi, assieme al resto del corteo reale quando, in un punto particolarmente critico, spinse il cavallo fra i sassi sdrucciolevoli del fiume. L'animale incespicò e la trascinò con sé nelle acque gelide del Savuto. L'episodio venne descritto efficacemente da Gabriele D'Annunzio nelle Laudi:

"Isabella D'Aragona
sentiva già l'orrore della sorte
imboscata né monti ove risuona
giù per la costa calabra il maligno
guado che lei travolse e la corona." 

La sfortunata regina giunse in fin di vita a Cosenza, qui spirò assieme al bambino che portava in grembo e qui venne inizialmente sepolta nel duomo della città (che ancora ne conserva il monumento funebre) per poi essere successivamente traslata in Francia.

Tutto questo credo che possa aiutare a capire che il mulattiere, in questi luoghi impervi era il mestiere perfetto. Tutti avevano necessità di un mezzo di trasporto quando la schiena e le proprie spalle non erano sufficienti a reggere il peso di ciò che si voleva trasportare. Ed il mulo, a questo scopo, era l'animale perfetto: dalla costituzione forte e robusta, resistente alle malattie e adattabile agli ambienti sfavorevoli.
Di muli Nicolò ne possedeva due come risulta dal catasto che certamente non erano la sua unica fonte di reddito, ma ne costituivano la parte preponderante. Basti pensare che, come risulta dai documenti, questi generavano una tassazione di 50 oncie, contro le sole 20 oncie della casa di proprietà o le 23 di un grosso castagneto. Completavano il patrimonio di Nicolò, a testimoniare il fatto che comunque svolgeva altre attività oltre a quella di mulattiere, due preziosi buoi da aratro, alcuni altri appezzamenti di terreno ed alcuni crediti che vantava verso dei suoi concittadini.

Fra i "pesi" che andavano a decurtare il reddito imponibile quello che mi incuriosisce di più è il pagamento perpetuo da parte di Nicolò di 14 carlini per celebrazione di messe, presso la vicina chiesa di San Marco, in memoria di Prospero Stumpo. Chissà per quale motivo.

Il tutto, immobili, terreni, crediti e animali dedotti i pesi generarono una tassazione (espressa nella valuta convenzionale del catasto) di 120 oncie, grani 20 e cavalli 4 che era senz'altro fra quelle di fascia più alta in paese.

I Li Marzi ad ogni buon conto non rimasero benestanti a lungo visto che, 50 anni dopo, ci fu da parte degli invasori francesi di Napoleone un vero e proprio tentativo di sterminio della famiglia che, seppure parzialmente fallito, la privò completamente di tutti quei beni che Nicolò aveva pazientemente e sapientemente accantonato. Sto parlando ovviamente dell'uccisione di Pasquale e Stefano Li Marzi e, probabilmente, della sparizione di Antonio Li Marzi (suoi nipoti in quanto figli del suo primogenito Vincenzo).


SILVIO LIMARZI


venerdì 4 settembre 2015

UNA FAMIGLIA

Marzi 228 anni fa. Anno 1787, 24 marzo.
Dietro la scrivania il notaio Michele Zumpano più che scrivere stava compiendo quello che chiunque oggi considererebbe un miracolo di pazienza. Intingere con parsimonia il pennino nell’inchiostro per poi appoggiarsi e scrivere con calma e in bella grafia fino a riempire otto ruvidi fogli di carta spessa. Attento a non fare macchie, a non calcare troppo o troppo poco, a non commettere errori di grammatica, di ortografia e, nel frattempo, costruire un atto che stesse in piedi sotto il profilo logico e giuridico. Ma, 228 anni fa, di tempo e di pazienza ce n’era in giro un sacco.

Davanti a lui, o meglio dall’altra parte della scrivania, c’era una intera famiglia. O quasi.
Li immagino tutti vestiti tutti bene per l’occasione (che allora voleva dire mettersi il meno logoro dei due o tre abiti in loro possesso): c’era una madre, Caterina Tucci, che aveva passato più tempo da vedova che da sposata. Erano infatti trascorsi 15 anni da quando suo marito Vincenzo Li Marzi, a soli 33 anni, aveva “reso l’anima a Dio”. Non riesco a pensare ad un definizione migliore della morte. Un tempo la usavano i parroci per redigere i certificati di morte ed è questa la formula utilizzata, quando Vincenzo se ne andò nel 1772, anche dal parroco della chiesa di Santa Barbara a Marzi:

Documento prodotto dal nipote Raffaele Limarzi in occasione del suo matrimonio
(Marzi 1828)

C'erano poi due dei tre figli che Vincenzo e Caterina fecero in tempo a mettere al mondo: Antonio, il loro primogenito, nato fra il 1760 e il 1763 e Pasquale, il più piccolo, nato nel 1769. Mancava invece il mediano, Stefano, che impossibilitato a presenziare aveva provveduto, tramite procura scritta, a farsi rappresentare nell’occasione dal sacerdote Fedele Tucci. La scelta, del resto, non fu affatto casuale: don Fedele oltre ad essere un religioso (all’epoca una delle fidate figure alle quali ci si rivolgeva per questo genere di delicati incarichi), era anche il fratello minore di Caterina e quindi zio di colui che rappresentava.
Non sapremo mai cosa indusse Stefano quel giorno a mancare un appuntamento tanto importante. Viene da pensare che fosse malato, forse anche gravemente, oppure che fosse, in quel periodo, lontano da Marzi. Di sicuro si trattava di qualcosa che non li colse di sorpresa. La procura, fatto strano, era stata infatti redatta diversi mesi prima dell’atto, nell’ottobre del 1786 chiudendosi con la firma e la frase di rito scritta di proprio pugno dal ragazzo:



Stefano quindi sapeva scrivere come del resto, lo so per certo, anche Pasquale. E lo stesso valeva quasi sicuramente (anche se non ne ho riscontro) per Antonio. A quei tempi, infatti, il primogenito era sempre il privilegiato, istruzione compresa. Impensabile che ciò che era toccato ai suoi fratelli minori non fosse toccato a lui.
Saper leggere e scrivere, all’epoca, non era certamente la regola, bensì un’eccezione ed una prerogativa che si ritrovava in pochi appartenenti ad una ristretta cerchia di famiglie. Il fatto che, al contrario, Vincenzo fosse riuscito a garantire l’istruzione a tutti i suoi figli forse a qualcuno può sembrare un dettaglio secondario, ma non lo è. In realtà ci rivela come egli possedesse entrambi i requisiti fondamentali per poterlo fare: una grande lungimiranza e dei buoni mezzi economici.
La lungimiranza risiedeva nell’aver capito che la chiave per provare ad assicurare ai propri figli un futuro migliore stava nell’istruzione; i buoni mezzi economici, in tutta evidenza, rappresentavano la condizione indispensabile per tradurre ogni buona intenzione in fatti concreti.

Senza dubbio, a mettere assieme le due cose, lo aveva aiutato non poco suo padre Nicolò che a sua volta lo aveva spedito a scuola da ragazzo (erano solo in 22 che ci andavano in una Marzi che sfiorava i 1.000 abitanti) e che da semplice mulattiere (un mestiere umile ma redditizio), grazie al suo lavoro e ad un certo fiuto per gli affari, era riuscito ad accumulare un discreto patrimonio.
Al resto contribuì Caterina che, appartenendo anche lei ad una famiglia che stava discretamente bene, portò una buona dote a Vincenzo . Anche in questo caso niente sfarzo, per carità, ma suo  padre Luc’Antonio possedeva in società con suo fratello Domenico un mulino alla "fiumara da''Ara" che dava il suo buon reddito il che gli permise di accasare la figlia con quel buon partito che era Vincenzo. 

So bene che facendo certi ragionamenti non si dà il giusto spazio al romanticismo, ma sarebbe ingenuo non pensare che, oltre che dell'amore, il loro sia stato un matrimonio figlio degli usi e dei costumi del tempo che imponevano alle coppie di formarsi quasi esclusivamente fra individui del medesimo ceto sociale. A questo proposito non può essere una coincidenza il fatto che i rispettivi genitori (Nicolò e Luc'Antonio) fossero, se non amici, di sicuro ottimi conoscenti: di qui fino ad arrivare ad ipotizzare che fra i due sia intervenuta una sorta di “contrattazione” il passo è breve.

Insomma, alla fine Vincenzo certamente per meriti suoi, ma agevolato dall'eredità paterna e dai beni di Caterina, stava piuttosto bene economicamente: una vigna, un castagneto, due chiuse (piccoli appezzamenti di terreno recintato), un orto, un paio di case ed una certa disponibilità di denaro. 
Addirittura si trova traccia di un suo prestito di una considerevole somma a Francesco Golia, cosa che oggi lo farebbe scambiare per un usuraio, ma che ai tempi rappresentava una prassi consueta.
Trecento ducati ceduti, al tasso (tutt'altro che esoso) del 5%, in una sorta di finanziamento perpetuo. Golia in pratica poteva tenere la somma sin quando voleva purché pagasse al suo finanziatore la somma di 15 ducati annui (il 5% di 300 appunto) come interesse. In caso di sua morte il debito sarebbe passato ai suoi figli, viceversa, nel caso in cui fosse morto per primo Vincenzo, il credito sarebbe andato a beneficio dei suoi eredi. In qualsiasi momento era possibile estinguere (affrancare) il  debito, con la restituzione dei 300 ducati e la transazione si sarebbe definitivamente chiusa così.

Non se li è goduti molto quegli interessi Vincenzo. Antonio era adolescente, mentre Stefano e Pasquale erano ancora dei bimbi quando il padre mori e lasciò loro quel credito, la casa, le chiuse, la vigna e tutto il resto.

Per i successivi 15 anni quell'intero patrimonio sarebbe rimasto esattamente così, come l'avevano ricevuto: integro ed indiviso. Tutti questi anni i tre li trascorsero, crescendo sotto lo sguardo vigile della madre, nella casa di famiglia alla “Ruga delli Vaccari” senza mai porsi il problema della spartizione di quel lascito. E così fu sino a quando Antonio conobbe Rosa Garofalo che nel 1884 sposò e con la quale andò a vivere sotto un altro tetto.
Il tempo e la naturale successione degli eventi aveva quindi spezzato, almeno formalmente, l’unità della famiglia (che, va detto, sotto il profilo dei legami affettivi non venne mai meno). Man mano che i mesi passavano, poi, diventava chiaro che, con Antonio fuori casa e i due fratelli più giovani che stavano per spiccare anche loro il volo, si avvicinava il momento di “spezzare” anche quella sorte di unità economica che li aveva contraddistinti. Ciò avvenne in realtà senza alcuna fretta, visto che ci vollero altri tre anni perché prendessero quell'appuntamento con il notaio. 


IL CONTENUTO DELL'ATTO

Alla fine le divisioni furono fatte e, si capisce dal tenore delle stesse, che esse erano il frutto di un accordo bonario già concordato da tempo e non provenivano da delle rigide spartizioni matematiche. Ognuno, infatti, tenne per sé non semplicemente "la propria parte", ma ciò che più gli era utile, mettendo nel giusto conto il valore delle cose, ma senza pesarlo in maniera ossessiva:

- la casa di Ruga Delli Vaccari rimase a Pasquale e Stefano, i due fratelli che ancora vi vivevano con la madre (negli anni successivi, poi, sappiamo che Pasquale a sua volta cedette la sua metà dell’immobile a Stefano);

- la vigna de “Lo Britto”, la chiusa di Repupa e quella di San Sebastiano invece andarono ad Antonio in cambio (testuale) di una gonna di “saja scarlatina” (la saja teoricamente è un tessuto povero, per “scarlatina” presumo si intenda il colore), di un corpetto di velluto e di sei ducati;


- la titolarità del prestito di trecento ducati rimase alla madre Caterina anche se in parte vincolato sino alla sua morte. Per la precisione la somma vincolata era di 180 ducati che sarebbero passati, dopo la sua dipartita, a ciascuno dei suoi tre figli nella misura di 60 ducati ciascuno. I rimanenti 120 ducati, al contrario, sarebbero rimasti nella sua più completa disponibilità;

- altri 30 ducati (denaro di famiglia) vennero assegnati sempre a Caterina. Tale somma, assieme ai 120 di cui sopra serviva a ricostituire la dote di 150 ducati da lei portata a Vincenzo per il matrimonio;

- ad Antonio rimase l’onere di pagare un debito a Bartolomeo Calabrese, in quanto il medesimo era stato contratto per lavori alla chiusa di Repupa;

- Antonio e Pasquale rimasero coobbligati per la restituzione di un prestito ottenuto da Francesco Mannella (futuro suocero di Stefano che sposò in seguito sua figlia Caterina) e di uno, più piccolo, nei confronti di loro cugino Bruno li Marzi. Si trattava di debiti a suo tempo da loro contratti congiuntamente e tali dovevano rimanere;

Facile constatare che, dopo questo atto, la proprietà dei beni di famiglia aveva acquistato una sua logica che soddisfaceva le esigenze di tutti. 

Il notaio Zumpano ha continuato ad operare a Marzi per i successivi venti anni e dei suoi servizi i Li Marzi si sono spesso serviti ogni volta che se ne presentava l'esigenza. Sfogliando i suo fogli di carta ruvida ho scoperto tante cose di loro ma, soprattutto, ho capito che davvero i Li Marzi erano una famiglia nel vero senso della parola. Quella giovane vedova e quei tre ragazzotti adolescenti affrontarono la vita facendo un fronte comune. In tanti atti, infatti, si coglie in maniera tangibile ciò che traspare da questo: la volontà di condividere sia gli oneri, sia gli onori della loro esistenza.

Ad un certo punto, in questi volumi, Caterina non la ritroviamo più: probabilmente è il segnale che, ormai, anche per la madre, divenuta anziana, era giunto il momento di rendere l’anima a Dio. E fu fortunata  a farlo prima di vedere ciò che sarebbe accaduto ai suoi amati figli:

Stefano e Pasquale glieli uccisero, durante l'invasione del 1807,  i francesi di Napoleone. Quando li appesero al patibolo erano ancora una volta uno di fianco all’altro, fino al loro ultimo respiro. Non so pensare a quali furono le ultime parole che si dissero, mentre si guardavano l'un l'altro negli occhi, con la consapevolezza che le loro vite stavano per finire. Impossibile anche solo immaginarlo.

"Avevano fomentato la rivolta” dissero di loro alla Gran Corte Criminale di Cosenza, ma in realtà erano solo due povere vittime di un esercito a cui nulla interessava se non di opprimere e spargere terrore. (cliccare qui per la loro storia completa)

Antonio invece sparì, non sappiamo come e non sappiamo quando, anche se accadde, molto probabilmente, in quel periodo. Niente e nessuno mai lo potrà confermare, ma io sono convinto che la sua scomparsa sia legata ai medesimi fatti che portarono alla morte i suoi fratelli. Troppo strana la coincidenza. Del resto è noto che le famiglie dei cosiddetti giustiziati, oltre a dover far fronte al dolore per la perdita del congiunto, cadessero in disgrazia. 
Ed è certo che, dopo quel 1807, di lui non si trova la benché minima traccia. Antonio sparì lasciando un tale vuoto dietro di sé da far pensare, come minimo ad una fuga precipitosa (magari per evitare la sorte toccata ai fratelli?) o, addirittura, alla sua morte. In quegli anni di tumulti assoluti non sarebbe stato certamente né il primo né l'ultimo caso di morte bianca.
E, si badi bene, il vuoto di cui sto parlando non è solo quello che pure ho avuto modo di riscontrare nelle mie ricerche, ma è quello che ci testimonia uno dei suoi più stretti famigliari nel documento che segue:

Siamo nel 1862, Stefano (un nome non a caso), un nipote di Antonio, si deve sposare e, secondo la legge occorre il consenso paterno. Suo padre però è deceduto e Stefano lo documenta regolarmente producendone il certificato di morte.

In subordine, come da prassi, viene richiesto il consenso del nonno o in alternativa la certificazione del suo decesso. Ed è qui che Stefano non sa che pesci prendere: non sa dove suo nonno Antonio è morto, non sa quando è morto e non sa nemmeno qual'è il suo ultimo suo luogo di residenza: 





Quanto ai beni che quel giorno dal notaio erano stati così accuratamente suddivisi è inutile dire che, a seguito di quella sentenza capitale, furono tutti requisiti. Insomma, la famiglia venne quasi interamente spogliata e sterminata.
Quasi. Perché quel tramonto fu il preludio di una nuova alba. La speranza prese il nome di due cugini: di Raffaele, il piccolo orfano di Pasquale (che sarebbe il mio trisnonno) e di quello di un altro giovane ragazzo, anche lui senza più un padre, di nome Vincenzo (che sarebbe il trisnonno di Bruno). Ed è esclusivamente grazie a quell'esile filo che, dopo più di due secoli, un giorno io e Bruno abbiamo potuto ritrovarci assieme a Marzi e riunire idealmente quella famiglia. 


ALBERO GENEALOGICO FAMIGLIA LIMARZI/LI MARZI
1630 - 2015
(premere qui)

Quelle pagine scritte con pazienza dal notaio Zumpano sono solo un banale pretesto: spero che si sia capito che non è certamente l'aspetto burocratico della vicenda che mi interessa. Il mio intento è ben diverso: è quello di raccontare a tutti i Limarzi e Li Marzi (attaccato o staccato poco importa) una storia che è diversa da tutte le storie che conoscono perché è la LORO storia, la nostra storia.

Chi volesse leggere o scaricare quelle otto pagine le può trovare qui sotto. Ho messo qualche nota per agevolarlo sperando che ne possa trarre un po' di aiuto. Io invece la lettura me la sono sudata tutta dovendo interpretare una grafia d'altri tempi senza conoscere né il linguaggio burocratico del '700, né il latino.


Da ultimo non mi posso esimere dal fare un'ultima raccomandazione: chi ha la medesima pazienza del notaio Zumpano se le legga, gli altri lascino pure perdere. Che poi non si dica che non l'avevo detto.





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mercoledì 12 agosto 2015

LE AVVENTURE DELL'ISPETTORE LIMARZI

Io non conosco Luigi Ciocchetti ma, imbattendomi in un suo racconto, sono rimasto piuttosto stupito quando ho visto che uno dei protagonisti della trama era un certo "ispettore Limarzi".

Spinto dalla curiosità mi sono messo a cercare qualche traccia di questo misterioso autore: la ricerca, devo dire, non si è spinta troppo lontano visto che si trattava di un noto avvocato forlivese con la passione per lo scrivere. L'ho contattato scrivendogli e chiedendogli cosa lo avesse spinto a utilizzare questo cognome e lui, con molta cortesia, mi ha risposto che non c'era un motivo vero, ma che semplicemente si trattava di "un cognome dalla sonorità gradevole ma anche importante" che gli era piaciuto utilizzare. Mi ha anche detto che stava pensando ad una nuova avventura dell'ispettore Limarzi e che se avessi avuto qualche idea o suggerimento era il benvenuto.

Il racconto, per la cronaca, è piuttosto gradevole e facilmente fruibile in forma gratuita su internet. L'ispettore Limarzi ne esce come personaggio assolutamente positivo, quindi perché non leggerlo? A fondo pagina trovate il link.



FUORI
Luigi Ciocchetti - 2013

Attraverso le mura del carcere, da detenuto a uomo libero. La storia della scarcerazione di Luca S., stimato professionista condannato per omicidio, vittima di un sistema giudiziario annoiato, indifferente e superficiale.

Luigi Ciocchetti è nato a Siena nel 1964. Vive a Forlì, dove svolge la professione di avvocato. Dopo aver collaborato come cronista con dei quotidiani locali è approdato alla narrativa pubblicando i suoi racconti in varie riviste specializzate.



LEGGI O SCARICA IL RACCONTO

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mercoledì 8 luglio 2015

MAURIZIO LIMARZI - L'ULTIMO LAVORO

Ieri sera, 7 luglio 2015, è andata in onda su Rai 1 la puntata di "Techetecheté" ideata e curata interamente da Maurizio (che è stato anche il produttore esecutivo della trasmissione).
A poco più di un mese dalla sua "partenza" è bello ricordarlo così..... Buona visione a tutti.








Questo, oltretutto, non è l'unico blog che in questi giorni parla di Maurizio. I due link che seguono rimandano al sito di un suo ex compagno di scuola (Enrico Galantini) che in passato ne raccontava le prodezze scolastiche nel post del 2012 "Che fine hai fatto Mammola" e che di recente, una volta appresa la notizia della sua scomparsa, ha voluto ricordarlo nel post "Ciao Mammola".
Mammola, a quanto ne so, era il soprannome di Maurizio ai tempi della scuola.

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domenica 7 giugno 2015

MAURIZIO LIMARZI

25/04/1953 - 04/06/2015


Non mi mancherà, di te, un mio ricordo di bambino: un omone grande e grosso che, con la sua testa piena di capelli, mi mangiava tutti gli avanzi.

Non mi mancherà, il ricordo di te seduto sulla poltrona tutta scalcagnata che è stata di zia Maria.

Non mi mancherà, di te, il ricordo dell'abbraccio che mi hai dato, infagottato in un giubbotto di pelle, nel momento più difficile della mia vita.

Non mi mancherà, di te, il ricordo del tuo sguardo truce che non faceva paura proprio a nessuno.

Non mi mancherà, di te, il ricordo del sorriso che regalavi a mio padre ogni volta che ti trovava nei titoli di coda di una trasmissione televisiva.

Ecco: queste poche cose, di te, non mi mancheranno. Tutto il resto mi mancherà.

BON VOYAGE MORRIS...


SILVIO

venerdì 24 aprile 2015

Domenica 9 Luglio 1950

Quando nonno Silvio morì improvvisamente era una domenica di luglio del 1950. Aveva 74 anni e, forse, il cuore un po' troppo logoro. Io, comunque, preferisco a pensare più semplicemente che la sua ora fosse arrivata. In ogni caso la notizia della sua morte corse veloce per le vie di Meldola e fece molto scalpore: era morto "e' dutor", colui che era riuscito ad allungare la vita di tante persone, ma che quel giorno, non era riuscito a fare nulla per allungare, nemmeno di un minuto, la sua.

La causa del decesso fu, quasi certamente, una dissezione della aorta, evento che anche oggi è quasi sempre letale e che, a maggior ragione, 65 anni fa non poteva lasciare scampo. Eppure il nonno, tentando su sé stesso l'ultima diagnosi della sua vita, chiedeva disperatamente (e inutilmente) una bombola di ossigeno per provare a respirare un altro pò. Non sarebbe servita quella bombola, questo probabilmente lo sapeva anche lui, ma non era mai stato abituato a mollare la presa su di un paziente senza averle provate tutte. Non lo fece nemmeno quel giorno.

Quel suo ultimo grido di aiuto, però, finì inevitabilmente per rimanere impresso nell'immaginario collettivo tanto che, pochi giorni dopo, trovò spazio nelle colonne de "IL PENSIERO ROMAGNOLO" noto periodico della provincia di Forlì. L'autore fu Alessandro Baronio, suo amico e compaesano che allora scriveva per la testata.


(cliccare sul testo per ingrandire)

lunedì 30 marzo 2015

In memoria di Maria Concetta Pia Pompeiano in Limarzi

9 Novembre 1925 - 16 Marzo 2015

Purtroppo in questo mese di marzo è venuta a mancare zia Pia, vedova di zio Nino (Giovanni Limarzi). Da qualche giorno mi stavo chiedendo come ricordarla in questo sito, poi ci ha pensato il settimanale della diocesi di Forlì - Bertinoro "Il Momento" a togliermi le castagne dal fuoco. La rivista ha pubblicato il bellissimo ricordo con il quale la nipote Alice (figlia di Marco Rossi e di Silvia Limarzi) ha voluto ricordarla alla fine del rito funebre.
Impossibile fare di meglio.



(cliccare sull'immagine per una migliore visualizzazione)
 
 
SILVIO LIMARZI
 
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lunedì 9 febbraio 2015

LE ALI... E LE RADICI

LE ALI....
Ottobre 2014 - Laurea di Francesco Limarzi e Stefania Ghinassi
Novenbre 2014 - Laurea di Federica Mallozzi
Febbraio 2015 - Laurea di Annamaria Ghinassi


17/10/2014 - FRANCESCO e STEFANIA
In questi giorni in famiglia sono arrivati due nuovi, splendidi medici.

Francesco Limarzi figlio di Marco ed Elena Morra

Stefania Ghinassi con i fratelli Antonio ed Annamaria e i genitori Paolo e Gabriella Limarzi



.....E LE RADICI

Forse qualcuno da lassù sta sorridendo sotto i baffi...


Silvio Limarzi ufficiale medico nella prima guerra mondiale(foto di Silvio '61)

Proprio questa settimana sono andato all'archivio storico del comune di Meldola a ripescare una vecchia delibera. Non è una delibera qualunque: è l'atto che, nel luglio 1921, ha rappresentato una svolta fondamentale per il destino della nostra famiglia e, quindi, anche di questi due ragazzi.
Dopo un lungo peregrinare per l'Italia nonno Silvio è diventato medico condotto a Meldola. E qui, a 64 anni dalla sua morte, è ancora per alcuni (non più giovanissimi) "é dutòr".


Come si può notare Silvio aveva in realtà incominciato ad operare come medico condotto a Meldola dal 1 aprile 1921 in forza di una delibera di nomina che venne annullata dal prefetto così come altre delibere della medesima seduta del consiglio comunale. Evidentemente era stato riscontrato qualche vizio di forma.

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UNA STORIA MELDOLESE
La nomina di Silvio avvenne all'unanimità dal consiglio comunale di allora presieduto dal sindaco Ferdinando "Nando" De Battisti, noto per essere un uomo mite e di buon senso. Nando, che poi divenne amico di nonno Silvio, faceva il meccanico e riparava un po' di tutto, dalle moto alle macchine per cucire. Sarebbe bello che molti sindaci di adesso avessero lo stesso "background", credo che farebbero molto meglio il proprio mestiere.

Come mi ha fatto notare mio padre mentre scorreva i nomi degli altri 11 consiglieri votanti, allora la cosa pubblica era gestita con grande oculatezza da gente semplice che a volte non sapeva nemmeno leggere e scrivere, ma agiva con scrupolo ed onestà. Fra questi c'era Raimondo Marzocchi socialista della prima ora che si racconta fosse stato in prigione (a causa delle sue idee politiche) con Pietro Nenni e il primo Mussolini. Quest'ultimo, come sappiamo, prese altre vie, mentre il buon Raimondo rimase sulle sue posizioni che, con l'avvento del Fascismo divennero di fatto sovversive. Stiamo ovviamente parlando delle idee, non certamente della persona che non avrebbe fatto del male nemmeno ad una mosca. Eppure ad ogni visita del Duce che si svolgeva anche solo nei dintorni di Meldola, Raimondo veniva, a scopo precauzionale, incarcerato assieme ad altri individui ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico. Ciò accadde per alcune volte sino al giorno in cui Mussolini, incontrando alcuni meldolesi, chiese "Ma dov'è il mio amico Raimondo?". Inutile dire che i suoi interlocutori faticarono non poco a spiegare i motivi della sua assenza ed inutile dire che da allora nessuno si sognò più di andare a rompere le scatole a Raimondo.

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10/11/2014 - FEDERICA
MEDICI E NON SOLO

E non è finita qui. In questo autunno particolarmente prolifico è arrivata anche una nuova dottoressa in famiglia:


Federica Mallozzi con la sorella Francesca e il genitori Alfredo e Ornella Limarzi

Federica si è laureata (con tanto di stampelle) in Lingue e Culture Straniere alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Roma Tre.
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9/02/2015 - ANNAMARIA
...E ALLA FINE ARRIVA ANNA...

Le corone di alloro si susseguono ed è un po' difficile stare al passo. In questi primi giorni di febbraio è arrivata anche la laurea in LETTERE MODERNE di Annamaria. Da Roma si passa, in una bella giornata di sole, a Milano, precisamente alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università del Sacro Cuore.



Annamaria è, come Stefania, figlia di Paolo Ghinassi e Gabriella Limarzi. Mio padre l'ultima volta che l'ha vista le ha sussurrato in un orecchio: "tu assomigli molto a mia mamma". Si riferiva a nonna Giuseppina, che di Annamaria è la bisnonna.

Giuseppina è nata nel 1891 e certamente non era una donna di lettere come la pronipote. Ma di sicuro aveva una sua cultura, aveva studiato e sapeva scrivere in un italiano bello e fluente. Di questa cosa, affatto scontata per una che aveva vissuto la sua giovinezza all'alba del secolo scorso, me ne sono accorto leggendo una lettera che scrisse di suo pugno in risposta ad una missiva del podestà di Meldola. In essa lo stesso podestà rimproverava a suo marito Silvio di non essersi reso disponibile per una chiamata urgente in sostituzione del dottor Pradella (altro medico condotto di Meldola) che in quel momento a sua volta non era reperibile.
Nonna Giuseppina, per nulla intimorita, non esitò a prendere carta e penna per redigere una elegante per quanto perentoria difesa del consorte:


Illustrissimo signor Podestà,
Leggo la sua missiva diretta a mio marito:
tengo a farle sapere che sin'ora (ore 12 e mezza) 
egli non è ancora tornato da un lungo giro
in parrocchia di Bagnolo (condotta di Pradella)
per cui era impegnato sin da ieri.
Di ritorno dovrà subito recarsi a Ricò 
ed ai Capannini per altre chiamate.
Egli dunque non si è rifiutato per altre ragioni
che il suo impegno professionale.

Con scuse ed ossequi devotissima

Giuseppina Limarzi

da casa 26 - 2 - 930

Al podestà non rimase che appuntare di suo pugno sulla lettera di nonna Giuseppina: "Ricevuto ampie giustificazioni.....". Episodio chiuso.

Un abbraccio a tutti i neo laureati!


SILVIO LIMARZI


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mercoledì 24 dicembre 2014

VITA DA MEDICO

UN RACCONTO IMMAGINATO, MA NON IMMAGINARIO

Il 19 marzo del 1928 era un bel giovedì di festa a Meldola. Di prima mattina, in paese erano in tanti che,  già in piedi, stavano tirando fuori il vestito buono dall'armadio mentre il fuoco cominciava a scaldare il brodo: serviva per i cappelletti che facevano bella mostra di sé, nessuno uguale all'altro, tutti ordinatamente distesi sul tavolo della cucina. Il vestito buono delle mogli, adagiato sul letto, era in ancora in attesa di essere indossato perché non si poteva rischiare di sporcarlo con le faccende domestiche; per gli uomini, immuni da questo rischio, era di rigore un bell'abito scuro mentre per i bimbi invece era già tempo di pantaloni corti (ammesso che, cosa affatto scontata, ne avessero mai posseduti di lunghi).
Piano piano tutti sarebbero scesi in piazza e "nel borgo" (come ancora gli anziani chiamano il centro del paese) per andare a messa o, più semplicemente per fare un giro.
Era il giorno di San Giuseppe, santo al quale il paese ha sempre dedicato una devozione assoluta sia sul piano religioso che su quello secolare: alle pompose cerimonie nelle chiese gremite, infatti, si affiancava una splendida e frequentatissima fiera che attirava gente da tutti i paesi vicini.


Meldola - Via Cavour in un giorno di festa - Anno 1926
(Fonte: Archivio Ruggero Milandri)

Il cuore della fiera in verità non era propriamente in centro ma nella leggermente defilata chiesa di San Francesco dove tuttora viene venerato il Santo. Proprio al fianco della chiesa, nel luogo dove ora sorge il teatro parrocchiale, c'era un grande prato dove tutti si dirigevano per andare ad acquistare un dolciume in una delle tante bancarelle che lo occupavano. Qui si potevano trovare anche i "brazadel" (degli anelli di pasta simile al pane e dalla consistenza croccante) che vendevano venduti in "corone" simili a grosse catene che i ragazzi si mettevano attorno al collo.

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I BRAZADEL - Antica ricetta romagnola
"Si impasti, in acqua e sale, della buona farina bianca; si impasti bene e si ripeta fino ad ottenere un composto sodo come i fianchi di una giovane sposa.
Staccati dei tocchetti di 80-100 grammi, si ricavino dei bigoli della grossezza di un dito, lunghi a sufficienza per farne un bel cerchietto. Si lascino asciugare almeno 10-15 minuti - meglio se più - perché, in superficie, si crei una sottile crosta. Si immergano poi, per non più di 3-4 minuti, in un ampio paiolo dove sobbolle (ma molto lentamente) dell'acqua dolce. I bracciatelli verranno da soli a galla a dirci subito di passare - sempre per 3-4 minuti in un mastello di acqua fredda.
Poi li accoglierà, fino a cottura, un forno riscaldato a legna, dal quale verranno levati con la panera, una specie di largo badile di legno dalla pala assotigliata in cima"
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Sempre a San Francesco ci si preparava alla festa liturgica con una novena che incominciava, appunto, nove sere prima e che veniva definita da tutti (molto poco liturgicamente) "la nuvena di murus" (la novena dei fidanzati). Ciò era dovuto al fatto che molti ragazzi vi partecipavano non propriamente spinti dalla devozione religiosa, ma piuttosto dal desiderio di incontrare qualche coetaneo dell'altro sesso da corteggiare o, più semplicemente, nella speranza di esserne corteggiati. Si trattava di un piccolo espediente per infrangere quei rigidi steccati che venivano eretti fra il genere maschile e quello femminile dalla società di allora: a scuola si frequentavano classi rigorosamente separate, all'oratorio si giocava in luoghi diversi e momenti diversi e le famiglie stesse non brillavano per elasticità.
Per questo motivo, dopo un lungo inverno passato a chiudersi in casa appena scendeva il sole, potere finalmente uscire alla sera era davvero un'occasione imperdibile. E grandi erano le acrobazie per sfruttarla al meglio nel tentativo di smarcarsi dai genitori. Bastava anche solo incrociare uno sguardo, ottenere un sorriso o un cenno di saluto per ritornare a casa felici in attesa della sera successiva. E i risultati furono ottimi devo dire, visto che molti meldolesi ancora oggi viventi sono anche un po' figli di quella novena.

A questa atmosfera, quella mattina, non poteva sfuggire di certo casa Limarzi, la casa di mio nonno Silvio. Lì, probabilmente, i cappelletti quel giorno li aveva fatti Clara. Clara (che oggi avremmo definito come "la governante") era una romagnola doc e i cappelletti li sapeva fare bene: Silvio la conobbe quando era medico condotto a Civitella e se la portò a Meldola quando vi si trasferì, seguendo i destini dalla sua professione.
Nonna Giuseppina, sua moglie, i cappelletti penso proprio che non li sapesse fare: lei, che negli occhi aveva ed ha sempre conservato il mare della sua Castellammare di Stabia, la Romagna e le sue usanze le aveva incontrate da appena da una decina di anni. Magari, questo sì, aveva preparato  una delle sue famose salse per l'arrosto che ancora oggi, tramandate a mia madre, campeggiano sulla nostra tavola nelle feste comandate.
Sinceramente non credo che avesse potuto fare tanto di più, assorbita com'era dalle cure del piccolissimo Franco (Francesco) nato da appena 5 mesi che reclamava costantemente le attenzioni della mamma e le rendeva le notti sin troppo brevi.
Poi, come se non bastasse, c'erano Vittorio ed Eugenio, 9 e 7 anni, che giocavano, si amavano e si azzuffavano come solo i fratelli di quell'età sanno fare. Di sicuro, di qualsiasi cosa si trattasse, non volevano fra i piedi il troppo piccolo Nino (Giovanni) che il giorno successivo avrebbe compiuto appena 3 anni e che, al contrario, non desiderava altro che stare con i fratelli più grandi.
Nino era quello biondo. Davvero si notava in mezzo a tutti gli altri dai capelli corvini e con lo stampo dei Limarzi nella faccia. Appena nato, quando nonna Giuseppina potè averlo fra le braccia lo guardò e capi che stavolta quel piccoletto, finalmente, assomigliava a lei. E subito pensò: "questa volta il nome lo scelgo io". E fu così lo battezzò chiamandolo come il suo caro fratello Giovannino che aveva lasciato a Castellammare.
Mio padre Umberto, l'ultimo nato di casa Limarzi, ancora non c'era: sarebbe arrivato dopo 5 anni, nel 1933.

C'era invece Maria, l'unica femmina che, nel fiore dei suoi quindici anni, non vedeva l'ora di sfuggire a tutta quella confusione e di potersene andare con le amiche in giro per le vie del paese a fare il gioco del"fioraverd" che anch'esso caratteristico di quei giorni. Guai ad uscire e farsi cogliere di sorpresa davanti a chi, magari appena sbucato da dietro una colonna del loggiato, ti gridava: "fioraverd!"

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LA GARA DEL "FIORAVERD"
da "Storia di Meldola" di Fabio Lombardi - Società editrice "Il Ponte Vecchio" - Anno 2000
"Nei giorni precedenti la festa di San Giuseppe, tra i bambini si faceva la gara del "fioraverd" consistente nel conservare un pezzettino di legno di bosso da mostrare ogni volta che l'altro concorrente ne faceva richiesta e perdeva chi veniva trovato senza. La penitenza consisteva nel pagare pegno il giorno della festa. Il pegno consisteva in una quantità pattuita di caramelle, dolciumi o frutta secca, che il perdente doveva offrire all'altro giocatore."
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In quella casa nonno Silvio, in mezzo a quel vociare di bimbi ci stava perfettamente. Rispondeva alle domande di tutti, quando era necessario li richiamava all'ordine e li osservava in tutte quelle loro occupazioni così diverse le une dalle altre. Ma era proprio in quei momenti che probabilmente sentiva di più riaprirsi una ferita ancora troppo fresca. Qualcuno infatti mancava all'appello e, purtroppo, sarebbe mancato per sempre:

Telegramma del 19/08/1927 - Provenienza: TARANTO - Destinazione: MELDOLA
"Pregasi informare con dovute cautele famiglia allievo Sergente Pilota Limarzi Francesco..... è deceduto ore 8,30 causa incidente aviatorio"
Firmato: Comandante Aviazione Fedeli
(Fonte: Archivio Storico Comune di Meldola)

Il piccolo Francesco che stava in braccio a sua moglie Giuseppina, infatti, aveva ereditato il nome dal fratello maggiore che, pilota della nascente Aeronautica Militare  era tragicamente deceduto, appena pochi mesi prima, nel mare di Taranto in un volo di esercitazione con un idrovolante.


Francesco Limarzi (1908 - 1927) e il suo aereo
(Fonte: Marco Limarzi)

A Meldola il ricordo di quell'accadimento era ancora fresco: al primogenito di nonno Silvio vennero tributati dei solenni funerali e venne allestita una camera ardente in comune a Meldola. Il suo nome venne scolpito nel Lapidario dei Caduti che si trova ancora ora ad uno degli ingressi del Ministero dell'Aeronautica a Roma.

MINISTERO DELL'AERONAUTICA - ROMA - Scorcio del Lapidario dei Caduti contenente il nome di Francesco Limarzi
(Fonte: Ministero Aeronautica)

Certi dolori, del resto, riaffiorano sempre nei giorni di festa.
Silvio, forse, scacciò questi pensieri mentre si aggiustava la cravatta scura davanti allo specchio, magari ripensando a quali ammalati che era il caso di andare a visitare in mattinata in modo da avere tempo di pranzare in tranquillità in famiglia. Perché i malati non fanno mai festa e ancor meno la facevano nel 1928. A quei tempi non era necessario avere contratto chissà quali malattie per rischiare delle complicanze anche gravi: a volta era sufficiente una influenza curata male per andarsene al Creatore. E, assieme agli ammalati, nemmeno i medici condotti abbandonavano il loro posto. C'era sempre qualcuno da andare a visitare, magari per il quarto o quinto giorno consecutivo e comunque fino a quando la febbre non se fosse andata via, la ferita non fosse sufficientemente rimarginata o una brutta tosse fosse sparita. La sua vita, come quella di tutti i medici condotti, era questa, ma l'accettava di buon grado anche perché, in fondo, era quella che si era scelto. E poi perché lamentarsi? Quel giorno era San Giuseppe, i suoi piccoli erano a casa, Clara aveva fatto i cappelletti e, dal terrazzo che si affacciava sulla piazza, entrava un raggio di sole e arrivava il vociare allegro della fiera.

Piano piano, di lì a breve, con l'affluire della gente proveniente dalle campagne, quel vociare sarebbe diventato quasi chiasso. Anche tutti quelli che vivevano nelle frazioni, infatti, non sarebbero mancati all'appuntamento.

Domenico Fabbri, ad esempio, la sera prima ci aveva fatto un pensiero a scendere in paese dalla sua Valdinoce. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero: quella mattina infatti il buon Domenico, invece che tirar fuori il vestito buono fu costretto a precipitarsi all'ufficio postale di Teodorano per inviare la sua richiesta di aiuto. Ai tempi, del resto, non c'erano telefoni, le auto si contavano sulla punta delle dita e quello era l'unico sistema per comunicare velocemente con quella Meldola che pure oggi appare così vicina.
Suo padre Sante stava male, molto male e c'era assolutamente bisogno di un medico. Lo avrebbe aspettato al "botteghino vecchio" (l'unico esercizio pubblico funzionante a Valdinoce) per poi accompagnarlo nella sua casa sperduta chissà dove.

"Urgemi subito dottore botteghino vecchio Valdinoce da Fabbri Sante ammalato grave"
(Fonte: Archivio Storico del Comune di Meldola)


Il telegramma arrivò all'ufficio postale di Meldola che, ovviamente, era anch'esso in Piazza Orsini come dovevano essere tutte le cose che servivano:  il comune, il medico, le poste e i telegrafi, la caserma, il bar, l'osteria, il barbiere, il sarto, il generi alimentari. Uno poteva passarci tutta la vita in piazza senza che gli fosse mai venuto a mancare nulla.
Un impiegato lo trascrisse velocemente, lo ripiegò e lo affidò ad un postino perché  la attraversasse in tutta fretta per raggiungere il palazzo comunale e lo affidasse al podestà o ad un suo incaricato. Gli bastarono solo pochi passi, ma ancora meno furono quelli che dovette fare il messo comunale per andare a cercare un medico: la casa del dottor Limarzi, uno dei tre medici condotti del paese, era giusto davanti al comune, al numero uno di via Alighieri  (la prima casa dell'attuale via Roma).

Meldola in una foto d'epoca che inquadra l'inizio di via Roma (allora via Dante Alighieri)
Sulla sinistra il comune sulla destra in alto, sopra il loggiato, il terrazzo di casa Limarzi
(Fonte: Archivio Ruggero Milandri)

Il bussare alla porta e la voce concitata del messo deve avere per un attimo fermato il trambusto di casa. Ma forse neanche troppo: ai tempi non è che ci fosse il 118 e a casa erano un po' tutti abituati all'arrivo trafelato di gente in cerca di un medico.
Il pensiero principale dei piccoli fu, probabilmente, che il babbo rischiava ancora una volta di fare tardi a pranzo, ma niente più. Per loro era normale sentire risuonare il suono del batacchio che magari li svegliava nel cuore della notte e, mentre già si riaddormentavano, udire i passi del babbo che, con gli occhi ancora chiusi, dava un bacio alla mamma, afferrava a sua borsa con i ferri del mestiere e andava a scoprire cosa lo aspettava: un bambino che nasceva, un anziano che stava per morire, un ragazzo che si era ferito.

Quel giorno il babbo lesse il telegramma e, come voleva prassi, vi scrisse in calce "parto subito per Valdinoce", lo controfirmò velocemente (come testimonia la sua grafia frettolosa) e prese la sua borsa. Scese e cercò un auto di piazza che lo portasse fin lassù.

Cosa accadde poi non lo so. Non so se nonno Silvio sia ritornato in tempo per mangiare i cappelletti di Clara e gustarsi la salsa di nonna Giuseppina. Non so se prima di mettersi a tavola abbia potuto dare un buffetto a Nino e Franco o rimproverare Eugenio e Vittorio che si litigavano una pietanza; non so nemmeno se abbia potuto accarezzare i lunghi capelli neri di Maria.
Perché alla fine io, di quel 19 marzo 1928, anche se l'ho raccontato, non so nulla.

Però ho ascoltato un sacco di piccoli racconti sul mio paese e sulla mia famiglia che quei vecchi telegrammi ritrovati all'Archivio Storico di Meldola hanno unito nella sottile trama di questa piccola storia che, anche se è raccontata male, di sicuro non è troppo distante dalla realtà.

Ma c'è una cosa che so per certo: Sante Fabbri quel giorno se l'è vista brutta, ma sopravvisse: lo testimoniano i telegrammi dei giorni successivi che, di nuovo, davano appuntamento a nonno Silvio al botteghino vecchio di Valdinoce per una nuova visita all'ammalato.
E fu di nuovo rumore di batacchi e di ferri riposti in una borsa di pelle scura.


SILVIO LIMARZI


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