“Ho riflettuto molto sulla nostra rigida ricerca, mi ha dimostrato come ogni cosa sia illuminata dalla luce del passato… in questo modo io sarò sempre lungo il fianco della tua vita e tu sarai sempre lungo il fianco della mia.”

da OGNI COSA E' ILLUMINATA - Jonathan Safran Foer

martedì 22 ottobre 2013

FRANCESCO AL PROCESSO AL BRIGANTE MUSOLINO

"Il 15 aprile è cominciato alle Assise di Lucca il processo contro il brigante Musolino, che si prevede molto semplice: infatti il bandito ha confessato apertamente di avere ucciso dodici o quattordici persone per vendetta. E' difeso da dieci avvocati mentre uno solo rappresenta i genitori dei carabiniere Ritrovato, ucciso da Musolino, che si sono costituiti parte civile. E' interessante segnalare la presenza di un interprete, che traduce il dialetto calabrese dei testimoni."
(Da "La Domenica del Corriere" - Maggio 1902)





CHI ERA GIUSEPPE MUSOLINO?
Taglialegna di mestiere, la sua storia iniziò il 28 ottobre 1897 quando scoppiò una rissa rusticana nell'osteria della Frasca, a Santo Stefano in Aspromonte per una partita di nocciole: da un lato Musolino e Antonio Filastò, dall'altro i fratelli Vincenzo e Stefano Zoccali, oltre ad una terza persona mai identificata. Una rissa come tante: ma, il giorno dopo, in una stalla del paese (dove successivamente venne trovato il berretto di Musolino), qualcuno sparò a Vincenzo Zoccali che rimase ferito. Ben presto intervenirono i carabinieri che, dopo aver arrestato il Filastò ed un tale Nicola Travia, bussarono invano alla casa di Musolino che nel frattempo si era dato alla fuga. Di lì a sei mesi Musolino venne comunque rintracciato e arrestato dalla guardia municipale e tradotto a Reggio Calabria.

Primo processo

Il 24 settembre 1898 venne processato per tentato omicidio davanti alla Corte d'Assise di Reggio Calabria, che lo condannò (ingiustamente e con prove false secondo la leggenda) a 21 anni di carcere.
Sempre proclamatosi innocente, promise vendetta ai suoi accusatori ai quali avrebbe giurato che un giorno "avrebbe letteralmente mangiato il fegato e che ne avrebbe venduto la carne come animali da macello".

Carcere e latitanza

Venne condotto e recluso nel carcere di Gerace Marina, l'odierna Locri, ma dopo due anni, nel gennaio 1899, riuscì a fuggire iniziando così la sua latitanza durante la quale si rese responsabile di una lunga serie di assassini fra i quali quelli di coloro che l'avevano accusato e tradito.
I suoi rifugi furono le montagne, i boschi, e persino i cimiteri con il costante sostegno della gente del posto che lo vedeva come simbolo dell'ingiustizia in cui la Calabria allora versava. In totale nei primi 8 mesi dalla fuga si macchiò di 5 omicidi e 4 tentati omicidi oltre che di un tentativo di distruzione con dinamite della casa di Zoccali.
Iniziò così una rocambolesca caccia al brigante che vide costantemente Musolino sfuggire alla cattura.
La sua notorietà in poco tempo si sparse in tutta Italia grazie a lunghi articoli sulla stampa italiana e varcò i confini nazionali al punto che importanti giornali stranieri (The Times, Le Figaro) iniziarono a interessarsi della vicenda. La sua figura così divenne leggendaria e le sue gesta divennero uno spunto per racconti, leggende e canzoni popolari.
Nonostate gli importanti appoggi nell'area calabrese però, per Musolino la situazione stava diventando difficilmente sostenibile. Fu probabilmente questo che lo portò alla decisione di lasciare nel 1901 la Calabria animato dall'ambizioso progetto di a chiedere la grazia al nuovo re Vittorio Emanuele III.

La cattura

Il processo di Lucca in una tavola dell'epoca

Il suo viaggio verso nord si interruppe nell'ottobre di quel medesimo anno quando venne catturato per caso ad Acqualagna (in provincia di Pesaro Urbino) da due carabinieri ignari della sua identità  che si trovavano nella zona alla caccia di alcuni banditi del luogo: mentre stava percorrendo un viottolo di campagna alla vista dei militari, Musolino cominciò improvvisamente a correre credendo di essere l'obiettivo delle loro ricerche. Inseguito durante la sua fuga inciampò su di un filo di ferro di un filare di viti, cadde e venne fermato.

Da qui divenne famosa la frase:"Chiddu chi non potti n'esercitu, potti nu filu" (Quello in cui ha fallito un esercito, c'è riuscito un filo).
Nel pubblicare la notizia dell'arresto alcuni giornali stimarono che il governo avesse speso per la sua cattura la cifra, astronomica per l'epoca, di un milione di lire.

Il secondo processo e la condanna

Il processo inizia il 14 aprile del 1902 alla Corte d'Assise di Lucca. Musolino chiede di essere difeso dai migliori avvocati d'Italia del tempo (Corriere della Sera - 22/23 gennaio 1902) che comunque non gli evitarono l'ergastolo che incominciò a scontare nel carcere di Portolongone. La sentenza viene emanata l'11 luglio 1902.
Resta in carcere fino al 1946, quando gli verrà riconosciuta l'infermità mentale con il conseguente trasferimento presso il manicomio di Reggio Calabria dove muore dieci anni dopo il 22 gennaio 1956.
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A Lucca, nella primavera del 1902, non si tenne un processo qualunque. Al contrario e senza ombra di dubbio si trattava del processo al più grande ricercato che l’Italia unita potesse sino ad allora ricordare: il brigante Musolino. Giuseppe Musolino, nato in Santo Stefano d’Aspromonte (Reggio di Calabria) il 24 settembre 1876, di professione taglialegna, era divenuto, a ragione o a torto, una specie di Robin Hood della Calabria, un archetipo per le popolazioni del sud Italia che sentivano tradite le fragili speranze che il vento del Risorgimento aveva loro portato.

Su di lui si sprecarono e si sprecano ancora oggi fiumi di inchiostro per sgrovigliare la matassa della sua vita, sempre in bilico fra l’essere considerata quella di un eroico brigante, piuttosto che quella di un sanguinoso assassino. Del resto era questa la ragione del contendere che animava le opposte fazioni anche durante quel procedimento che, vuoi per l’atteggiamento istrionico tenuto dall’imputato durante le udienze, vuoi per la copertura impressionante che i giornali italiani e stranieri gli riservarono, diventò un vero e proprio evento accompagnato da dispute nei bar, ma anche di mondanità (“Le donne s’innamorano del brigante e gli alberghi erano affollati di forestieri che volevano seguire le fasi del processo”  - Corriere della Sera).

Ma, mentre infuriava la polemica per tanta mitizzazione di quello che molti consideravano un semplice assassino, in uno di quegli alberghi strapieni se ne stava Francesco. Era lui quell'interprete di cui parlavano gli articoli, indispensabile in un processo nel quale la lingua italiana, ancora sconosciuta a una grossa parte delle popolazioni del sud, finiva spesso soppiantata dal dialetto. Del resto non c'era altra strada (vista la gran mole di testi e testimoni calabresi chiamati a deporre) per fare in modo che giudici e avvocati potessero avere una adeguata percezione di quanto veniva detto in aula.

A tutto questo venne dedicato anche una intera pagina de "La Domenica Del Corriere" del 4 maggio 1902. Era da un po' che ricercavo la copia di questo settimanale, ma non immaginavo che, una volta rintracciata, vi avrei trovato dentro anche una foto di Francesco. E invece eccola qua: 









E’ del tutto evidente che, per essere chiamato sino a Lucca dalla sua Castellammare e per essere stato scelto per un compito così delicato (per di più sotto gli occhi dell’intera opinione pubblica italiana), Francesco doveva per forza essere considerato uno dei più validi custodi della lingua Calabrese vivente a quei tempi. Il tutto nonostante egli avesse lasciato la sua terra di origine da ormai quarant'anni.

Il processo inizia il 14 aprile del 1902 alla Corte d'Assise di Lucca. Musolino chiese di essere difeso dai due migliori avvocati d'Italia del tempo (Corriere della Sera 22-23 gennaio 1902). L'imputato si rifiutò, non senza vanità e per non dare una cattiva idea di sé all'opinione pubblica, di indossare gli abiti da carcerato, avrebbe detto secondo le cronache del tempo:
Ho un abito di sedici lire il metro, e lo voglio indossare! Io sono un uomo storico e non un delinquente qualunque bisogna perciò usarmi riguardo!". 

Alla fine del dibattimento pronunciò questa autodifesa:
"Se mi assolveste, il popolo sarà contento della mia libertà. Se mi condannaste, fareste una seconda ingiustizia come pigliare un altro Cristo e metterlo nel tempio. Eppoi, vedete, io non sono calabrese, ma di sangue nobile di un principe di Francia. Chi condannate? Un cadavere, perché io posso avere cinque o sei mesi di vita al più".

Parole che divennero celebri ma che comunque non gli evitarono l'ergastolo nel carcere di Portolongone e otto anni in segregazione cellulare. La sentenza venne emanata l'11 luglio 1902.

Nel 1946 ben 44 anni di prigionia gli valsero la grazia, ma non la libertà visto che la sua mente aveva da tempo ceduto alla follia. (vedi cinegiornale dell'epoca)


Come già citato nelle sue note biografiche venne per questo rinchiuso nel manicomio di Reggio Calabria ove passò altri 10 anni sino alla sua morte avvenuta il 22 gennaio 1956.

Nel frattempo l'eco della sua avventura di vita non mancò di ispirare decine di canzoni popolari e di poesie (fra le quali quelle di Giovanni Pascoli e di Totò) e un famosissimo film che ebbe per protagonisti, nel 1950, i due più importanti attori dell'epoca: Silvana Mangano e Amedeo Nazzari

Questo quindi è un altro pezzo della nostra storia al quale Francesco ha partecipato. Merito della sua riscoperta va a mio cugino Silvio e al caro zio Nino (Giovanni). Silvio infatti si è ricordato che Nino aveva visto, trasmesso dalla Rai un documentario sul famoso brigante e sul suo ultimo processo. Durante il programma venne più volte fatta menzione della presenza di un traduttore dal Calabrese. Ora, non so se per intuito o se perché sapesse già qualcosa, mio zio scrisse alla televisione di stato chiedendo quale fosse il nome del traduttore. La Rai puntualmente gli restituì una risposta che recava il nome di Francesco. 

La foto ce lo consegna molto invecchiato rispetto a quella più famosa scattata a Castellammare risalente a circa vent'anni prima (già pubblicata in questo sito). La barba bianca è divenuta ancora più lunga, ma Francesco, come si conviene all'evento, è elegantissimo con tanto di bombetta. E, ancora una volta con gli inseparabili occhialini che quasi tutti abbiamo ereditato in famiglia assieme ai suoi difetti di vista.





SILVIO LIMARZI

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2 commenti:

  1. Ciao a tutti
    Silvio continua a soprendermi per il livello di dettaglio che riesce a raggiungere. A me bambino, subito dopo la guerra (la seconda, naturalmente) veniva detto di Francesco come intrpetre dal calabrese all'italiano nel corso del processo Musolino, svoltosi molti anni prima; confermo che ogni "calabrese verace" parteggiava per il brigante piuttosto che per la giustizia.
    Questo sostegno al brigantaggio da parte della popolazione è da vedere come reazione alle conseguenze negative che l'unificazione del paese comportò per larghi strati della popolazione. Tema questo, mai sufficientemente investigato dalla storiografia ufficiale.
    Saluti
    Bruno Li Marzi

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